Con la rilevanza sempre maggiore dei social media e delle piattaforme online, le aziende, ma anche i personaggi pubblici, devono curare la loro comunicazione con estrema attenzione, perché una parola sbagliata può causare una tempesta infinita che reca danni alla propria reputazione e immagine. Nonostante questo, ancora oggi, molte aziende vengono colte di sorpresa da queste ondate di critica su Internet, anche se, in molti casi, erano facilmente prevedibili con un efficace monitoraggio dei commenti e del sentiment nei confronti del brand; questa tempesta si chiama, in gergo, “shitstorm”.

Ogni shitstorm ha una causa scatenante. Nel contesto aziendale si tratta principalmente di attività discutibili, errori nella comunicazione, disfunzioni evidenti in un servizio o aspettative deluse. Spesso gli shitstorm sono espressione di insoddisfazione da parte dei clienti o una reazione a una trasgressione a un sistema di valori.

Le fasi di una shitstorm

In uno shitstorm si possono individuare chiaramente 3 fasi:

  • Prefase: I contributi ricevuti dagli utenti sono ad un livello normale; il numero e il tono dei post non mostra nessuna anomalia;
  • Fase acuta: Questa fase indica il vero e proprio shitstorm che comporta un numero elevato di commenti negativi, post, meme, il numero dei post raggiunge il suo picco. Questa fase spesso coincide con il momento nel quale i media si inseriscono e fanno da ulteriore amplificatore al fenomeno. Se non seguono ulteriori incidenti (ad esempio errori di comunicazione), che gettano altra acqua sul fuoco dello shitstorm, dopo il picco dei commenti c’è un rallentamento, con il quale la fase acuta volge al termine;
  • Post-fase: In questa fase capiremo la risonanza che ha avuto uno shitstorm. Anche se il numero di critiche è tornato a livelli normali, restano presenti in rete i temi su cui si è sviluppata la crisié ricordatevi che una volta pubblicato su Internet, per sempre su Internet.

Davide contro Golia

Se uno shitstorm si sviluppa contro un’azienda, molto probabilmente si potrà assistere a una grande e rapida solidarietà tra i diversi utenti, questo per il principio di Davide contro Golia, secondo cui un gruppo, che si suppone più debole, si scaglia contro un complesso che si presume grande, ricco e strapotente. 

Due PR guru svizzeri, Barbara Schwede e Daniel Grad, hanno teorizzato una sorta di termometro dello shitstorm che dovrebbe funzionare come una specie di “bollettino meteorologico”.  L’impatto che uno shitstorm  può avere sulla reputazione di un brand o un’azienda è valutabile sulla base: a) del di numero di commenti negativi rispetto al loro valore normale; b) della persistenza (cioè l’intensità e la durata) dei commenti e ultimo, ma non meno importante, c) la rilevanza che dipende dal raggio di azione e dalla visibilità e importanza della piattaforma sulla quale vengono pubblicati. 

 

Il caso Elisabetta Franchi

Un esempio di shitstorm molto recente è stato quello che ha riguardato Elisabetta Franchi, proprietaria dell’omonimo brand di moda, per le sue dichiarazioni sessiste e schiaviste.

Cosa è successo?

Durante un incontro organizzato dal quotidiano “Il Foglio” e ripreso in video, la Franchi

dopo aver ripercorso brevemente la storia del suo successo, ha espresso alcuni pareri personali in merito al ruolo della donna all’interno di un contesto lavorativo aziendale, dichiarando che, da sempre, assume solo donne che hanno superato i quarant’anni di età che sono, dunque, libere da impegni familiari e sono disposte a lavorare H24 senza causare assenze o “problemi” come quello di organizzare il proprio matrimonio o diventare mamme. Proprio per questi motivi, aggiunge, per ruoli più ai vertici preferisce scegliere gli uomini che sono più concentrati e “meno fastidiosi”. Naturalmente, questa sparata di stampo medievale e coloniale ha fatto il giro del web e in pochissime ore si è scatenato il putiferio mediatico nei suoi confronti. 

Come ha gestito questo shitstorm?

La Franchi, attraverso una storia pubblicata su Instagram, ha affermato che le sue parole sono state fraintese e che l’80% delle persone in azienda sono quote rosa, di cui il 75% di giovani donne impiegate e il 5% dirigenti e manager; il restante 20% sono uomini, di cui il 5% manager. Ha poi sostenuto che quanto ha detto era in relazione all’oggetto di discussione dell’evento a cui ha partecipato ovvero la ricerca di PWC, dal titolo ’Donne e moda’, da cui è emerso che nella società odierna le donne non ricoprono cariche importanti perché purtroppo, al contrario di altri Paesi, lo Stato è ancora abbastanza assente e quindi mancando le strutture e gli aiuti, le donne si trovano a dover affrontare una scelta fra famiglia e carriera.

Che dire, la toppa è peggio del buco. 

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